Il termine blue-jeans (o semplicemente jeans) designa il pantalone con taglio a 5 tasche, di cui le posteriori cucite sopra la stoffa, che usavano i marinai nel porto di Genova. Il brevetto risale a 141 anni fa, ma il suo possessore non fu un italiano.

Nella seconda metà dell’800 Levi Strauss, un tedesco che ci aveva visto lungo ed era emigrato in America in piena Febbre dell’oro, per far crescere l’azienda di abbigliamento di famiglia, creò i primi calzoni da un telone per i carri. Li confezionò per i minatori e furono un successo: più pratici di quelli in tessuto, non si deterioravano e duravano molto di più. I primi Levi’s, come per tutte le invezioni di successo che si rispettino, furono il frutto di un caso. Il denim venne dopo, era un tessuto importato dalla Francia dai commercianti di Nimes dal caratteristico colore blu, che forse avevano già utilizzato proprio quei marinai genovesi che rivendicano la paternità, per confezionare i loro indumenti da lavoro. Il risultato furono i blue jeans, e il termine jeans starebbe per Genes, termine con il quale venivano chiamati i genovesi. Il marchio di fabbrica, l’etichetta in pelle con i due cavalli che tirano un paio di pantaloni senza riuscire a romperli, e il brevetto, furono però una conquista di Levi Strauss.

Nel dopoguerra si diffuse la moda casual e non furono più visti solo come capo d’abbigliamento per lavoratori. Poi arrivarono i divi di Hollywood, belli e dannati, e diventarono un oggetto di culto e un simbolo di ribellione e anticonformismo per le generazioni postmoderne e i loro idoli, da James Dean a Elvis Presley, il selvaggio Marlon Brando. Negli anni ’70 erano a zampa di elefante come quelli che indossavano i ragazzi al Woodstock Festival o in Zabriskie Point di Antonioni. Da noi Celentano ne fece una canzone e un film, e celebre è anche la citazione del caschetto biondo napoletano Nino D’Angelo. Negli anni ’80 non eri un paninaro se non indossavi i Levi’s 501 oppure a vita alta o modello salopette come quelli di Madonna. Erano, invece, strappati sulle ginocchia quelli di Kurt Cobain. Oggi sono un capo prêt-à-porter, da giorno e da sera, di ogni forma e tessuto, colorati o nelle variazioni della classica tonalità, biologici, ecologici o etici. Il mondo intero ne ha almeno un paio nell’armadio, stracciato, maltrattato, tinto, tagliato o decorato con le applicazioni più varie. Oggi come allora, restano un capo democratico, indossato da personaggi come rockstar, ricche ereditiere e commesse del supermercato.